“Virginia è noiosa” sta al college basketball come “è l’umidità che ti frega” sta agli umarell che osservano i cantieri. È uno di quegli assunti popolari dai quali è impossibile sfuggire. Per carità: un luogo comune, per diventare tale, deve avere un qualche fondo di verità. A volte è davvero l’umidità quella che ti frega e a volte, in passato, abbiamo visto certe partite di Virginia che ci hanno fatto disinnamorare della pallacanestro (solo per qualche minuto: alla palla a spicchi non sappiamo tenere il broncio).
Questo refrain non va più troppo di moda in questi giorni, con gli ‘Hoos freschi di titolo nazionale dopo aver contribuito a dar vita a una finale memorabile e aver completato un filotto da infarto.
Prima, una Elite Eight vinta sopravvivendo a una delle prove individuali più travolgenti di sempre nella March Madness, grazie a un supplementare agguantato allo scadere. Poi una semifinale conquistata con tre liberi a pochi spiccioli dalla fine. Infine una finalissima vinta all’overtime ringraziando una tripla a 1″ dal termine, infliggendo 1.22 punti per possesso alla difesa di Texas Tech, la migliore di sempre secondo gli algoritmi di KenPom. Il tutto a un anno di distanza da una delle umiliazioni sportive più cocenti di sempre, quel clamoroso -20 contro UMBC nel primo capitombolo di una seed numero 1 contro una 16 al Torneo NCAA.
Una cosa assurda. “Da film”, verrebbe da dire, ma è così incredibile che molti sceneggiatori forse si guarderebbero dal proporre una storia così stucchevolmente improbabile, irrealistica, troppo da Disney. Invece è tutto vero e ora provateci voi a chiamare Virginia “noiosa”.
Cambiare per vincere
La squadra di Charlottesville basa tutto sulla difesa e congela i ritmi di gioco in attacco: questo è ciò che l’ha sempre resa così poco da popcorn. Anche quest’anno è stata così, con una differenza fondamentale: un gioco offensivo nettamente più versatile ed efficace rispetto al passato e che ha trovato il proprio apogeo nel Torneo NCAA.
Coach Tony Bennett aveva definito la débâcle con UMBC un dono doloroso e non c’è dubbio che senza quella batosta ora non staremmo a parlare di quest’altra – ben più gioiosa – prima volta. Possiamo anche eliminare termini come “squadra del destino” o “redenzione” ma rimane il fatto che la lezione impartita dai Retrievers ha cambiato l’approccio di Bennett come nessun’altra cosa in 13 anni di carriera da capoallenatore, per sua stessa ammissione: «If you learn to use it right, the adversity, it will buy you a ticket to a place you couldn’t have gone any other way».
Virginia non ha dovuto tradire il suo credo storico per vincere: gli è bastato fare un solo, cruciale aggiustamento per non essere più quella squadra capace di andare in cortocircuito nelle rarissime – ma talvolta inevitabili – occasioni in cui non riusciva a imporre il suo ritmo e i suoi temi sulla partita. «What we learned, is that you need multiple weapons to go to depending on what teams can do», ha spiegato l’assistant coach Brad Soderberg.
Come avevamo già scritto durante la March Madness, gli ‘Hoos di questa stagione hanno continuato a proporre il tradizionale Blocker Mover (l’uso di due bloccanti per agevolare l’azione degli altri tre attaccanti) che Tony Bennett aveva ereditato da papà Dick: solo che stavolta lo hanno alternato spesso con un altro tipo di schema offensivo, detto Continuity Ball Screen in quanto basato su una (potenziale) concatenazione di blocchi portati fino a quando non si trova un giocatore da servire per un tiro aperto. Con elementi versatili e tre eccellenti tiratori a disposizione – Kyle Guy, Ty Jerome, De’Andre Hunter – il nuovo approccio è andato tutto a vantaggio di Virginia, consentendole di adattarsi a ciò che la partita richiedeva di volta in volta.
Risultato finale di questo matrimonio fra vecchio e nuovo: la squadra di Bennett è stata l’unica capace di essere in Top 5 quest’anno sia per Adjusted Defense (5a) che Adjusted Offense (2a). Un equilibrio fra le due metà campo che, alla fine, è risultato essere più determinante dei colpi di fortuna – che pure servono sempre, sia chiaro, e che non sono mancati ai neocampioni in questo Torneo.
Vincere senza cambiare
Di recente, Billy Donovan ha rievocato il suo stato d’animo ai tempi del back-to-back da coach di Florida e di come il successo, in quel caso, lo avesse svuotato. Aveva inseguito la vittoria in maniera così affannosa e disperata da rincorrerla coi paraocchi e quindi senza poter apprezzare ciò che rende la vittoria così speciale: non il trofeo di per sé ma l’insieme delle relazioni umane che la rende possibile.
Realizzare un obiettivo è quanto di più dolce ci sia. Solo sul momento, però, perché gli obiettivi non si esauriscono una volta raggiunti. Indipendentemente dal grado di ambizione che celano, ce n’è sempre uno nuovo che spunta fuori e che chiede di essere inseguito. È parte indissolubile della natura umana. Se la rincorsa è infinita, il premio di ogni tappa – una medaglia, un trofeo, un nome in un albo d’oro – diventa di per sé poco rilevante. E allora è proprio vero che è il viaggio a contare più della meta.
Non è una lezione facile da imparare e, quando vi si riesce, ognuno lo fa coi propri tempi. Per fortuna sua e dei giocatori di Virginia, Bennett ha carpito questo insegnamento ben prima di alzare il trofeo lunedì notte. Il già accennato dono di UMBC è in realtà doppio, come spiegato implicitamente dal coach in un’intervista che precedeva di poco questa March Madness: «It sparked a fire in me that I want to compete at a higher level. I want this program to taste a level of success it never has. But it also taught me something that I think is as important or more important. That, if we never do, I’m still okay».
A un mese di distanza da queste parole, quelle proferite dal coach nello spogliatoio dei Cavaliers dopo la vittoria su Texas Tech hanno fatto da sipario al Torneo e dato seguito a quanto si è cercato di afferrare durante tutti questi mesi: «Take a look at every guy in here. Look at each other. Promise me you will remain humble and thankful for this. Don’t let this change you. It doesn’t have to».
Il personaggio Bennett magari non piacerà a tutti per via di quell’aura di Mister Perfettino che si porta dietro e che può anche mettere in crisi una cronista scafata come Dana O’Neil, recentemente lanciatasi alla ricerca di un singolo difetto presso quest’uomo (il suo massimo peccato? Fare battute insipide).
Insomma, chiamatelo pure noioso come avete fatto per anni con la sua squadra. Noi però non troviamo nulla di banale o di piatto in un coach e in un gruppo di ragazzi capaci di essere al contempo affamati, in pace con sé stessi e capaci di apprezzare il viaggio.
È vero che si va in campo per vincere e che non ci sarebbe sport senza competizione. È vero che ricorderemo questa Virginia per gli elementi romantici che hanno caratterizzato la sua corsa verso il titolo – il buzzer beater di Diakite, i liberi di Guy, la tripla di Hunter, lo spettro esorcizzato di UMBC e di anni e anni di etichettature ingenerose.
È vero anche, però, che c’è qualcosa di più da ammirare e imparare in tutta questa storia, e cioè che si può essere dei vincenti – nel senso più ampio possibile – indipendentemente dal fatto che si riesca oppure no a mettere le mani su un trofeo. Proprio perché il risultato sul campo conta relativamente da questo punto di vista, possiamo imparare da Virginia così come da Texas Tech, squadra di persone tremendamente intelligenti, determinate e umili. Una squadra che, al netto della delusione finale, si è goduta il viaggio in un’altra maniera ancora, davvero tutta sua. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.
BN su Virginia
- Virginia, dall’inferno al paradiso – 4 aprile 2019
- Tony Bennett e i cinque pilastri di Virginia – 11 gennaio 2018
Fonti e approfondimenti
- Heartbreak didn’t change Tony Bennett – Jerry Brewer, Washington Post, 9 aprile
- It Took Virginia Coach Tony Bennett One Sentence… – Justin Bariso, Inc., 9 aprile
- What Got You Here Won’t Get You There – Rob Dauster, NBC Sports, 8 aprile
- One reporter’s quest to prove that Tony Bennett isn’t Mr. Perfect – Dana O’Neil, The Athletic, 5 aprile