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Peyton Aldridge, un elite student a Cremona

Autore: Isabella Agostinelli
Data: 25 Nov, 2018

È stato definito un “elite student”, col suo QI al di sopra della media, sia in campo sportivo che accademico. Alla borsa di studio di Alabama per giocare a football, Peyton Aldridge ha preferito quella offertagli da coach McKillop a Davidson, dove si è ritagliato sempre più spazio fino a diventare uno dei migliori Wildcat di sempre. Il 21 febbraio scorso, dopo aver messo 45 punti a referto contro SBU, è entrato nel ristretto club di giocatori di Davidson che hanno segnato almeno 2000 punti, club che comprende anche un certo Steph Curry. Peccato che non sia lui il suo idolo, come la sua maglia numero 23 e soprattutto il suo profilo Instagram sembrano suggerire. Dopo averlo scoutizzato in preseason, conosciamo da vicino il nuovo giocatore della Vanoli Cremona, che ha iniziato molto bene la sua avventura italiana viaggiando a quota 13.3 punti (40.7% da tre), 5.0 rimbalzi e 1.4 assist di media.

Sei venuto con Davidson in Italia nel 2017 per una serie di partite amichevoli. Che ricordo hai di quella esperienza? Ha influenzato un po’ la tua scelta di venire a giocare qui?
Ricordo molto bene quella esperienza. Abbiamo avuto modo di visitare alcune città fantastiche, creare un gruppo molto affiatato e, naturalmente, provare le specialità italiane, il che non è poco! Ho amato da subito l’Italia e il modo di fare degli italiani. Così, quando mi è arrivata la proposta di Cremona, non ho esitato molto a dire di sì: non vedevo l’ora di tornare nel vostro Paese.

Parlaci un po’ delle tue caratteristiche di gioco e di come si sono adattate al basket italiano. Su cosa vuoi migliorare e su cosa invece ti senti di poter fare la differenza?
Innanzitutto, a Cremona mi sono sentito subito a casa, un po’ come era successo a Davidson, e quindi penso sia il posto migliore per maturare e migliorarmi. Soprattutto per quel che riguarda l’aspetto più fisico del mio gioco. Il campionato professionistico italiano ha un livello di fisicità maggiore rispetto al college. È quindi molto più difficile ritagliarsi uno spazio in area e soprattutto prendere i rimbalzi. Inoltre, voglio essere ancora più aggressivo in ogni azione. Da parte mia, posso dire che potrò dare un grande contributo alla squadra grazie alla mia versatilità e alla mia capacità di ricoprire vari ruoli: posso giocare come ala grande ma so anche spostarmi fuori dall’area e tirare da tre.

Raccontaci l’impatto con il metodo di gioco di Meo Sacchetti, che ha delle somiglianze con la visione di coach McKillop.
È vero. Il metodo di Sacchetti mi ricorda molto quello di coach McKillop: gioco veloce con molti spostamenti e che ti lascia molta libertà. Mi piace molto e mi trovo decisamente a mio agio anche in difesa, dove è richiesta molta aggressività su ogni pallone.

Aldridge e coach McKillop

Dal tuo profilo Instagram (#peyton_james23) si capisce che sei un gran tifoso di LeBron James. Non è un po’ strano che tu sia finito a giocare a Davidson, alma mater di Steph Curry? 
LeBron è dell’Ohio come me. Era il mio idolo quando da piccolo ho iniziato a giocare e da allora lo è sempre stato. Senza naturalmente togliere nulla a Curry, che è un grandissimo giocatore e che rispetto tantissimo. Davidson ha sempre avuto un legame particolare con i giocatori dell’Ohio e quindi mi è sembrata la scelta giusta per chiudere questo cerchio.

Davidson non era di certo l’unica opzione, dato che anche Dayton e Creighton si erano fatti avanti. Cosa avevano i Wildcats e coach McKillop in più degli altri?  
Davidson mi ha colpito soprattutto per l’ambiente che assomigliava più ad una famiglia. Mi hanno accolto davvero come un figlio e, soprattutto, lo staff ha saputo instaurare da subito un legame forte che mi ha tolto qualsiasi dubbio su quale college scegliere. Ricordo ancora una frase che coach McKillop mi ha detto durante il recruiting: “Voglio che, ogni mattina, quando ti alzi, ti guardi allo specchio e veda la grandezza in te”. Voleva che ogni giorno fossi la versione migliore di me stesso. All’epoca avevo 16-17 anni e puoi immaginare come quelle parole mi abbiano colpito e da allora ho cercato sempre di metterle in pratica.

Il marchio di fabbrica di coach McKillop è la motion offense. Come ci si allena per riuscire ad entrare in quegli schemi? Qual’è la parte più difficile?
Innanzitutto, alla base c’è un ottimo lavoro di recruiting: vengono scelti solo giocatori che si adattano meglio alla visione di gioco di coach McKillop. Si tratta, come hai detto tu, di un gioco molto rapido e pieno di continui cambi di posizione per i giocatori. Adattarsi a tutto questo, inizialmente, non è proprio facile, anche perché da freshman non si è abituati a quella velocità e soprattutto a gestire i vari ruoli. Ma una volta imparate le dinamiche, è davvero divertente come gioco dato che lascia molto margine di libertà. Ogni giocatore deve infatti ricoprire ruoli differenti durante la stessa azione e quindi vengono richieste delle abilità che non sono prettamente del ruolo che ricopri in campo.

Quando eri ancora alla high school, hai dovuto scegliere tra basket e football. Cosa ti ha attratto di più del basket?  
In realtà mi piaceva moltissimo giocare a football, ma semplicemente il basket era la mia passione. Entrambi i miei genitori erano allenatori di pallacanestro e quindi ho passato moltissimo tempo in palestra con loro. Crescendo, l’amore per il basket è diventato sempre maggiore e quindi, anche se mi piaceva il mio ruolo da quarterback, nulla poteva competere con il mio amore per la palla a spicchi.

E come ti ha aiutato il football a sviluppare le tue competenze su un campo da basket?
Il ruolo da quarterback che ricoprivo mi è stato sicuramente d’aiuto per quel che riguarda la visione del campo e del gioco. Inoltre, il football mi ha insegnato la determinazione e mi ha quindi aiutato quando in campo dovevo affrontare giocatori più grandi di me e con una fisicità maggiore della mia. Non solo per quel che riguarda il mio ruolo, ma in generale nel basket ci vuole una dose di questa tenacia, soprattutto nel backcourt dove devi essere irremovibile.

È questo il segreto della tua “intelligenza” sportiva di cui tutti parlano? 
Sì, direi di sì, ma anche crescere in palestra con i miei genitori mi ha aiutato ad aumentare questo aspetto. Direi che proprio il passare tanto tempo con loro, vederli allenare e crescere con una palla in mano hanno avuto un impatto grandissimo sulla mia crescita come atleta. Non a caso, i miei allenatori della high school mi avevano suggerito di diventare un quarterback. Quindi, il mio QI si era già sviluppato prima.

Se ti dico Saint Bonaventure, a cosa ti fa pensare? E quel quinto fallo c’era? 
(Ride) Penso ad una partita finita dopo tre overtime, nella quale ho segnato 45 punti. Penso ad una gara davvero indimenticabile e, anche se alla fine non siamo riusciti a portarla a casa, è stata una delle gare più belle della mia carriera. Difficile dire se è stata una chiamata giusta o sbagliata: era una fase molto concitata del gioco. Stavo cercando di prendere posizione, e l’arbitro ha pensato che probabilmente ci stessi mettendo troppa energia nel ritagliarmi uno spazio. Non do la colpa a nessuno: posso solo dire che è stata una gara che entrambe le squadre hanno giocato al meglio ed è questo quello che conta.

Aldridge contro St Bonaventure

E cosa mi dici della tua stagione da senior che è stata senza dubbio la migliore? La partenza di Gibbs ti ha dato delle responsabilità maggiori? 
Jack era uno dei miei migliori amici in squadra e andavamo davvero d’accordo. Quando lui ha finito la sua carriera a Davidson, il mio allenatore mi ha chiesto di fare un passo importante e di diventare un leader nella squadra, sia con la mia voce che in campo. Ho preso questo impegno con la massima serietà, soprattutto nei confronti delle nuove guardie. Volevo svolgere il mio ruolo nel miglior modo possibile ed aiutarli il più possibile.

 

Con Davidson sei arrivato al Torneo Ncaa per due volte: che ricordi hai? 
Arrivare al Torneo è sempre un’esperienza emozionante, in quanto è il sogno di ogni giocatore nel momento in cui si inizia a giocare. Io ho avuto modo di arrivarci nella mia prima stagione e poi nell’ultima e devo dire che sono state delle emozioni completamente diverse. Da freshman, probabilmente, non capivo esattamente la portata di quel risultato: ero solo contento di esserci arrivato. Ma da senior ero consapevole del grande risultato che avevamo raggiunto.

Qualche rimpianto nel match contro Kentucky (perso per 78-73)? 
Eravamo davvero pronti per quella partita: ci eravamo preparati bene ma quella sera il nostro tiro non andava. Così alla fine non siamo riusciti a strappare a Kentucky la vittoria. È vero: abbiamo difeso bene e non abbiamo dato tiri facili da tre, ma abbiamo lasciato troppo spazio in area e quindi ci hanno punito sotto questo aspetto. Non ho rimpianti, se non quello di aver messo più canestri. Ma si sa, il gioco del basket è anche questo.

 

Chi è il giocatore più forte con il quale ti sei misurato a livello di NCAA?
Questa è una domanda difficile, ma se devo fare un nome direi Jaylen Brown, all’epoca a Cal e ora nei Boston Celtics. Era solo un freshman, ma per le sue qualità era evidente che era già pronto per la NBA.

Hai qualche rimpianto per la NBA?
Non nascondo di volerci riprovare, ma non ho rimpianti. La Summer League con gli Utah Jazz è stata davvero una grande esperienza e mi ha messo davanti ai miei limiti e quindi spinto a migliorarmi. Ed è questo che cerco quest’anno: voglio migliorare in un campionato competitivo e poi ripropormi il prossimo anno. E mi andrebbe bene qualsiasi squadra: il mio sogno, come quello di tutti, è di avere un’opportunità per giocare in NBA.

Segui ancora il college basket? Chi vedi come favorita alla vittoria finale?
Sì, anche se non è sempre facile per via degli orari e dello streaming, cerco di seguire le partite di Davidson. Hanno iniziato davvero alla grande e non potrei esserne più orgoglioso. Il gruppo di quest’anno è davvero buono e dallo scorso anno ci siamo rinforzati. Quindi aspettatevi un’altra buona stagione dei Wildcats! Senza dubbio, Duke è una delle favorite al titolo. Le due matricole Zion e Barrett sono davvero impressionanti e stanno già facendo la differenza da ogni punto di vista.

Come te la cavi con l’italiano?
Vediamo (ride cercando le parole)… riesco a capirlo meglio, ma ancora non so davvero parlarlo. È una cosa su cui voglio impegnarmi e a fine stagione voglio saper dire qualche frase.

Allora ci risentiamo a fine stagione per vedere i progressi!
Affare fatto!

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