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NIL: a che punto siamo nella grande rivoluzione?

Autore: Manuel Follis
Data: 10 Set, 2024

Lasciamo stare le citazioni, di quelle è pieno il Web. Una cosa la diciamo noi: il meccanismo del NIL (name, image and likeness) ossia in soldoni la possibilità che gli atleti del college ricevano compensi indiretti, non pagati direttamente dalle università, si è trasformata in un paio di anni nella più grande rivoluzione per la NCAA. Il combinato disposto della deregulation sui trasferimenti tra giocatori e la possibilità di pagarli, ha trasformato il mondo degli studenti americani in un gigantesco mercato in cui le università con più sponsor possono farla da padrone, in alcuni casi andando a cambiare equilibri consolidati nel tempo.

Un bene o un male?

Il problema è che è molto complesso, se non impossibile, valutare (almeno oggi) se NIL ha fatto bene o male al college. Parliamo di mondo universitario nel suo complesso, quindi considerando non solo il basket ma anche lo sport che è anche più ricco della pallacanestro, ossia il football. Ci sono grandi detrattori del NIL e grandi fan, come sempre. Di sicuro è impossibile ignorare l’argomento, o comunque l’impatto che l’introduzione di questo nuovo meccanismo ha avuto sul gioco. Per capirci, nei soli primi 10 giorni del mese di settembre 2024, il New York Times ha dedicato ben due articoli all’argomento. Non si intendono articoli in cui è “citato” il sistema NIL (quelli sono decine), ma quelli che il più importante e autorevole giornale del mondo ha dedicato esclusivamente all’argomento.

Il più recente (realizzato dalla redazione di The Athletic, sito controllato dal NY Times) aggiorna sulla causa in corso tra la NCAA e le Power 5 Conference, ossia le leghe più competitive e influenti del college, perché l’organizzazione nazionale delle università si è resa conto che il giochino del NIL rischia di creare una pesante asimmetria tra singoli atenei. In teoria le parti avevano trovato un accordo, ma la giudice Claudia Wilken ha rifiutato di pronunciarsi sull’approvazione preliminare invitando Conference e organizzazione nazionale a risedersi a un tavolo.

Il tema di fondo è evidente. Considerando che nel corso degli anni i programmi più vincenti si sono aggregati tra loro in conference d’elite, il risultato finale rischia di essere quello di una spaccatura in due dell’intero sistema: da una parte una 50ina di college che possono pagare offrire molti soldi si giocatori, quindi proporre un prodotto sempre più appetibile per sponsor e tv e dall’altra università che se prima erano considerate di “serie B” adesso vanno verso la completa irrilevanza.

Gli effetti

Mentre si discute del “come” e del “quanto” gli effetti del NIL diventano evidenti. Parlando di basket, l’anno scorso era stata Miami a soffiare parecchi giocatori alle concorrenti sul mercato dei transfer sfruttando i compensi pubblicitari. Ques’anno ha fatto scalpore la cifra di 2 milioni “pagata” da Washington per poter schierare il lungo Great Osobor, transfer di talento da Utah State. La media dei prezzi varia molto e a seconda delle fonti ci sono pareri diversi, ma in linea di massima al momento un giocatore da quintetto base può valere 200,000-300,000 dollari, un “All-conference” tra 500 e 700 mila mentre un top nazionale tra 800,000 e 2 millioni.

Se da un lato il problema può essere la disparità di risorse e quindi di distribuzione del talento, l’aspetto positivo è che grazie al NIL molti giocatori al posto di andare per forza in NBA hanno davvero l’opzione di restare al college. Nella stagione appena passata 183 giocatori di Division I si erano dichiarati per il draft, di questi 104 sono tornati nel loro ateneo e 35 hanno scelto di trasferirsi, percentuali molte più alte che in passato. Non solo ma la possibilità di guadagnare sta influenzando anche molti talenti europei, che nella NCAA ora hanno una valida alternativa al trovare spazio tra i professionisti nel Vecchio Continente. Ci sono intere Conference, come la Ivy League, che pure non è composta da università “povere”, che hanno scelto di non sfruttare le potenzialità del NIL e per questo i loro atleti sono tagliati fuori dalla possibilità di guadagno.

Resta il fatto che il NIL sta cambiando le carte del gioco e, come è avvenuto per il meccanismo dei trasferimenti, probabilmente servirà qualche anno prima che i college capiscano come sfruttare al meglio le possibilità e trovino equilibri definitivi. Molte cifre peraltro non sono rese note e questo genera un contesto non del tutto trasparente per valutare le motivazioni che spingono i giocatori a scegliere un’università piuttosto che un’altra. La valutazione di una superstar come Cooper Flagg di Duke secondo SportsGrid si aggira intorno a 1,4 milioni. Ma sempre secondo il sito di sport Usa al secondo posto ci sarebbe Hansel Emmanuel, valore 1,2 milioni, che gioca per Austin Peay. Futura star NBA? No, ma è un giocatore che ha solo il braccio destro e che probabilmente per questo attira frotte di sponsor.

Insomma, tra battaglie giuridiche, intrecci sotto traccia tra agenti, coach e famiglie e tornei di inizio stagione creati a posta per far guadagnare soldi da destinare al NIL, l’NCAA sta provando a testare la sua elasticità per rimanere moderna. Molte questioni sono ancora irrisolte, prima su tutte quella della trasparenza degli accordi, ma sembra ormai folle pensare ad una Division I senza NIL.

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