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Yogi Ferrell e la rinascita dei Nets

Autore: Sergio Vivaldi
Data: 25 Nov, 2016

Yogi Ferrell ha chiuso la sua carriera con gli Indiana Hoosiers alle Sweet 16 del 2016 contro North Carolina. Una partita senza storia, in cui Indiana non è mai riuscita a impensierire i Tar Heels nonostante i 25 punti e 4 assist del giocatore più rappresentativo di tutto l’ateneo degli ultimi 20 anni. Non un bel modo di chiudere una carriera che lo vede primo in assist, partenze in quintetto e partite giocate nella storia degli Hoosiers e sesto miglior marcatore di tutti i tempi. Anima e cuore della squadra, con tutto il carisma e la leadership messi al servizio di un progetto collettivo e mai mirato ad accumulare premi personali. Un giocatore speciale, un raro mix di talento e personalità che alla Nba non poteva sfuggire al termine della sua carriera universitaria.

 

Ma lo scorso giugno il suo nome non fu pronunciato né dal commissioner Adam Silver né dal suo vice Mark Tatum (incaricato di chiamare le scelte del secondo giro). Un fisico troppo minuto, appena 183 cm per 81 kg, e un’età troppo avanzata, 23 anni, per migliorare a sufficienza e resistere al mondo della Nba. In difesa, con quel fisico, sarebbe stato sempre sopraffatto da avversari più fisici e talentuosi. O almeno è stato probabilmente questo il pensiero degli altri gm, ma i Brooklyn Nets lo seguivano da tempo, e gli hanno dato una possibilità senza dover rinunciare ad altre risorse, firmandolo come undrafted.

In Summer League ha fatto abbastanza bene (8.8 punti, 1.5 rimbalzi, 1.8 assist, 0.8 rubate in 4 gare), è migliorato in preseason e soprattutto ha impressionato dirigenza e allenatori, spingendo coach Kenny Atkison a dire, il giorno precedente al taglio dell’ex Indiana, “lui è come il coniglio della Energizer [nota marca di batterie, ndr]. Lo abbiamo visto durante la Summer League. Può segnare molto in poco tempo. È dinamico. Ha fatto un ottimo lavoro durante il ritiro”.

Ma i Nets non avevano spazio a roster, con le aggiunte dei veterani Jeremy Lin e Greivis Vasquez, i rookie Isaiah Whitehead e Caris LeVert e i due giocatori rimasti dalla scorsa stagione, Bojan Bogdanovic e Sean Kilpatrick. Ferrell finì ai Long Island Nets, la squadra di D-League affiliata ai Brooklyn Nets, con la speranza di avere una possibilità in prima squadra. Speranza che si è materializzata prima del previsto: LeVert è impegnato con la riabilitazione dopo l’ennesima operazione al piede (ha partecipato al primo allenamento completo con il resto della squadra questa settimana), Vasquez è stato tagliato dopo che un problema alla caviglia lo aveva limitato a sole tre partite in stagione, Lin ha subito uno stiramento al bicipite femorale nella partita di tre settimane fa contro i Pistons, ed ecco che i Nets sono stati costretti a richiamare Ferrell  per far fronte agli infortuni. E l’ex Indiana ha risposto presente: nono tra i rookie per punti segnati e quinto in assist distribuiti in circa 17 minuti a partita uscendo dalla panchina.

 

La realtà è che Ferrell, in un contesto Nba, difficilmente sarà una stella. I giocatori dotati di un fisico come il suo hanno grosse difficoltà in una lega che aumenta ogni anno di taglia (la moda dello smallball tende a nascondere la realtà di un futuro nelle mani dei Towns, Porzingis, Embiid e Davis, circondati da gente ben oltre i 2 metri di altezza) e i giocatori intorno ai 180 cm che hanno fatto davvero bene sono pochi. Il fenomeno Isaiah Thomas a Boston non deve ingannare. Ferrell può essere uscire dalla panchina e avere successo, ma per farlo serve un contesto nel quale possa crescere, migliorare e affermarsi. Fino a qualche anno fa, i Brooklyn Nets erano la franchigia meno indicata per questo tipo di situazioni (insieme a un paio di altre) ma, in questo nuovo corso, Ferrell potrebbe essere il giocatore giusto al posto giusto.

La ricostruzione

I progetti di ricostruzione, nel college e nella Nba, si vedono ogni anno e in realtà si assomigliano tutti: giocatori giovani e di buone prospettive, da far crescere in casa nella speranza di trovare quel “talento trascendente”, per usare la definizione di Sam Hinkie, l’ex gm dei Philadelphia 76ers, che potrebbe rappresentare la svolta per un’intera franchigia. Per realizzare il progetto, almeno nella Nba, bisognerebbe avere accesso al draft, ma non è questo il caso dei Nets, che hanno ceduto tutte le loro scelte fino al 2018 (compreso) ai Boston Celtics alcuni anni fa, in cambio di un presente che li ha condotti alle semifinali di conference nel 2014 e niente di più. Si è quindi deciso di ripartire: via l’allenatore (Lionel Hollins), riassegnato il gm (Billy King) “colpevole” di aver eseguito gli ordini del presidente, e tante facce nuove già fra i dirigenti. Dallo scorso febbraio il nuovo gm dei Brooklyn Nets è Sean Marks, ex collaboratore dei San Antonio Spurs, incaricato di importare la cultura e la mentalità del modello più vincente negli ultimi anni. E ovviamente risollevare la squadra dal baratro in cui è caduta. Per farlo servirà un’iniezione di talento, e secondo Marks, “il draft è solo uno dei modi per farlo”. Anche perchè i Nets sono obbligati a trovarne altri.

Il coach

Kenny Atkinson

Kenny Atkison, coach dei Brooklyn Nets

La capacità di far migliorare i giocatori è una parte importante del nuovo corso dei Nets. Senza la possibilità di accedere al draft, lo sviluppo interno e la ricerca di talenti dimenticati troppo in fretta dal tritacarne Nba è fondamentale. E per farlo, è necessario un allenatore che sappia relazionarsi con ognuno di loro. Sembra logico, quindi, che il prescelto sia stato Kenny Atkinson, ex development coach per diverse squadre Nba e fino alla scorsa stagione agli Atlanta Hawks.

“Kenny ha grande sensibilità e conoscenza del gioco. E questi due aspetti non sono sempre sinonimi. La sensibilità è più sottile, più difficile da trovare. E poi ha quel suo modo di relazionarsi. Quando parli della crescita di un giocatore, devi essere in grado di capire il gioco e di sentirlo, e poi devi essere in grado di comunicare e relazionarti con i giocatori. Lo ha fatto ad altissimo livello per tutto il tempo in cui è stato qui”. Parola di Mike Budenholzer, attuale coach degli Atlanta Hawks e assistente di coach Gregg Popovich per 18 stagioni.

Il nuovo coach non ha intenzione di tirarsi indietro. Subito dopo essere stato nominato capo allenatore, ha dichiarato che, vista la situazione della squadra, sarebbe stato necessario “guardare sotto ogni sasso” in cerca di talento. E così è stato. Ma soprattutto era necessario dare un segnale forte di cambiamento, anche per attirare eventuali talenti in futuro. Un gioco finalmente veloce (primi per numero di possessi a gara con 102.2), giocatori che si impegnano in difesa (ma al momento con scarsi risultati, 110.8 in Defensive Rating, 28esimi nella lega) e la scelta di utilizzare una motion offense che muove il pallone, tiene tutti i giocatori in campo coinvolti e predilige il tiro da tre. Rispetto agli anni dei playoff, la cui unica nota positiva era proprio la partecipazione alla postseason per una squadra noiosa e statica in campo, i tifosi si trovano ad ammirare una squadra vogliosa di fare ma non ancora capace di realizzare il proprio potenziale. Il talento a disposizione non è il massimo, ma sono tutti giocatori che valgono la Nba e che hanno rilanciato la loro carriera grazie a coach Atkinson e Sean Marks.

I rookie

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Isaiah Whitehead

Di Ferrell si è già detto, ma i Nets hanno altri due rookie in squadra, LeVert e Whitehead. Il primo è stato un rischio che la squadra ha deciso di correre, il suo recupero avverrà con tutte le cautele del caso e sarà fatto il possibile per garantire una carriera al ragazzo. In fondo, i Nets non hanno niente da perdere e molto da guadagnare, nel caso in cui si dovesse ristabilire completamente.

Whitehead invece si è trovato in rotazione da subito e, dopo l’infortunio di Lin, è partito in quintetto. Minutaggio e media assist sono simili a Ferrell, ma il suo fisico lo rende una buona scelta per la difesa. Non male per uno dei giocatori migliori nella storia di Seton Hall, finito al secondo giro e voluto fortemente dai Nets, che hanno scambiato una scelta e aggiunto qualche milione per selezionarlo offrendogli poi un contratto garantito sulle stesse cifre di una scelta al primo giro per tenerlo.

Gli altri giovani

Rondae Hollis-Jefferson è stato la 23esima scelta al draft 2015 ma, dopo 29 partite, una caviglia rotta lo ha costretto a saltare tutta la stagione. Tornato in campo quest’anno, il suo gioco offensivo è inguardabile, ma è il miglior difensore dei Nets. L’ex Arizona ha quindi un futuro come roleplayer e, se dovesse migliorare nel tiro da fuori, i Nets avrebbero trovato un giocatore intorno al quale costruire.

 

La prima mossa del nuovo gm Sean Marks è stata portare a Brooklyn Sean Kilpatrick, ottimo talento offensivo il cui unico problema con la Nba è sempre stato la difesa, un fondamentale in cui si migliora col tempo e con l’esperienza. Ha un Defensive Rating di 111 in questa stagione, un miglioramento rispetto allo scorso anno. Se Kilpatrick non dovesse più essere un danno in difesa, il suo talento offensivo saprà fare la differenza.

Discorso simile per Joe Harris, arrivato con la fama di grande tiratore e scelto al secondo giro dai Clevaland Cavaliers. Dopo un paio di stagioni tra D-League e prima squadra, è stato ceduto agli Orlando Magic e tagliato. In estate ha firmato per Brooklyn e i suoi numeri non sono particolarmente positivi (9 punti a partita, 31.1% da tre), ma gioca 24 minuti a gara e la speranza è che possa recuperare la fiducia nel tiro e tornare a tirare al 40% da oltre l’arco come ha fatto nei suoi quattro anni a Virginia.

La storia più affascinante di tutte è forse quella di Justin Hamilton, scelto da Philadelphia al secondo giro nel 2012. Dopo un paio di stagioni fallimentari, ha deciso di trasferirsi a Valencia, facendo registrare 14.1 punti e 5.4 rimbalzi a partita nel campionato spagnolo, convincendo i Nets a dargli un’altra possibilità. È tornato in Nba come sostituto di Brook Lopez, ma con un ruolo molto più ampio di quello che si pensava inizialmente. I due, infatti,  dividono equamente i minuti, scelta che ha massimizzato il rendimento di entrambi. Inoltre, i due centri hanno sviluppato un tiro da tre molto efficace (36.7% per Lopez, 44.2% per Hamilton) e con le guardie tendono a giocare un pick-and-pop che permette di aprire l’area per il portatore di palla. Come ha detto Hamilton in un’intervista nei giorni scorsi, “la Spagna ha salvato la [mia] carriera Nba”, perché è stato lì che ha dimostrato per la prima volta la sua buona mano da fuori.

 

I Nets sono a una svolta, hanno abbracciato una visione a lungo termine, hanno scelto un allenatore e un gm in grado di valutare talenti anche grezzi e farli crescere, e hanno riempito il roster di veterani e giocatori che sono stati scartati già una o più volte e non hanno intenzione di ripetere questa esperienza. Yogi Ferrell e compagni potrebbero presto essere parte di un nucleo vincente.

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