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La strana storia della Rookie Class 2016

Autore: Sergio Vivaldi
Data: 30 Dic, 2016

Ultimo appuntamento dell’anno per la rubrica Nba, ed è tempo di tracciare un primo bilancio della classe di rookie del 2016. In fase di avvicinamento al draft era opinione comune che il talento di primissimo livello fosse poco, a differenza che nel 2015 e di quanto si pensa sarà nel 2017. Era considerato un draft “profondo”, con tanti giocatori con sufficiente potenziale per entrare nelle rotazioni future di squadre Nba, anche con ruoli importanti in squadre da titolo. E in effetti il primo impatto è stato deludente, come previsto.

La prima scelta dello scorso giungo, Ben Simmons, non ha mai giocato a causa di un infortunio al piede. Voci lo davano già di ritorno a inizio 2017, ma la sensazione – vista l’assenza di notizie in merito – è che salterà tutta la stagione. Brandon Ingram è arrivato in una squadra con tanto talento giovane e non gli è chiesto di fare da eroe ogni sera, anzi, coach Luke Walton ha indirizzato lo sviluppo del ragazzo su altre fasi del gioco, tralasciando la fase realizzativa. L’obiettivo è renderlo un giocatore completo, capace di difendere e creare gioco, e il lavoro è stato impostato proprio per migliorare questi aspetti poco “spettacolari” e difficilmente rilevabili dalle statistiche. Finora l’operazione è un discreto successo. Intanto, Ingram avrà modo di mettere su qualche chilo e sviluppare i mezzi fisici per giocare contro le ali Nba, mostri di atletismo che al momento lo sovrastano fisicamente.

 

I grandi nomi del draft erano questi, gli unici a giocarsi la prima scelta, mentre tutti gli altri erano molti gradini sotto. Jaylen Brown cresce a Boston, tra alti e bassi. Kris Dunn, con tutto l’hype che lo seguiva, ha avuto qualche picco di mediocrità e per il resto è stato inferiore a Tyus Jones. Bender e Chriss sono appena maggiorenni. Buddy Hield deve ancora carburare. I vari Maker, Poeltl, Prince, Valentine e Papagiannis hanno avuto pochi minuti a disposizione e le cose buone che hanno fatto vedere (Poeltl soprattutto) sono scomparse. Delle prime 14 scelte, cioè la lottery vera e propria, gli unici a salvarsi sono Jamal Murray, Domantas Sabonis e Ingram, e nel caso di quest’ultimo si devono comunque ignorare i risultati di squadra (18 sconfitte nelle ultime 23) e le statistiche personali.

Alla luce del rendimento dei giocatori scelti in lottery quest’anno, non deve stupire quindi se le classifiche dei migliori rookie stilate finora hanno assunto una forma molto strana. Joel Embiid è a mani basse il miglior giocatore al primo anno di Nba, ma è stato terza scelta nel 2014 ed è rimasto fuori per i noti problemi fisici. Dopo un inizio piuttosto complicato, il secondo miglior giocatore finora è Dario Saric, altra scelta del 2014. Terzo miglior giocatore è Malcolm Brogdon, 36esima scelta del 2016 per i Milwaukee Bucks che arriva in Nba dopo 4 anni con i Virginia Cavaliers. Dopo di lui, il già citato Jamal Murray, altro giocatore che si è sbloccato dopo un inizio difficile, segnando a raffica e diventando il sesto uomo dei Nuggets. Segue Ingram, e poi il vuoto.

 

Ovviamente ognuno di questi giocatori è arrivato in un contesto particolare, qualcuno ha trovato terreno più fertile per esprimersi e qualcuno è arrivato in situazioni complicate. Due esempi opposti sono Domantas Sabonis e Denzel Valentine. Il primo è titolare in una squadra che raggiungerà tranquillamente i playoff, ma è difficile credere che si tratti dello stesso giocatore ammirato a Gonzaga. I Thunder hanno un bisogno disperato di spaziature e il lituano ha una buona mano, aspetto del suo arsenale che veniva ignorato al college in parte per la natura del gioco Ncaa e in parte per il sistema utilizzato da coach Mark Few. Il risultato è che con gli Oklahoma City Thunder, Sabonis viaggia a una media di 6.4 punti e 3.6 rimbalzi a partita, tira con il 41.4% da tre in stagione su 2.4 tentativi a partita, ma ha conquistato 7 tiri liberi in 673 minuti giocati. Di fatto, è un giocatore perimetrale che viene usato in attacco per far girare il pallone e per aprire il campo a Russell Westbrook. Il giocatore che terrorizzava la Ncaa in post è scomparso.

Denzel Valentine

Denzel Valentine

Tutti ricordano Denzel Valentine come un giocatore totale a Michigan State, leader in campo e capace di fare di tutto, e dotato di un tiro da tre era micidiale, la vera arma con cui riusciva a crearsi gli spazi necessari, visto la sua poca esplosività e i problemi alle ginocchia. Al suo ultimo anno al college ha tenuto media di 19.2 punti con il 44.4% da tre, 7.5 rimbalzi e 7.8 assist. Ma Chicago ha così tanto doppioni nel ruolo da limitarlo a 11 minuti a partita, e soprattutto, lui non si sta meritando lo spazio, visto il 26.8% da tre in stagione.

Cosa succede in questa anomala stagione Nba tra i rookie? Tolti alcuni casi eccezionali, come quello di Embiid, chiaramente un talento generazionale, si sta verificando un fenomeno strano. Gli one-and-done stanno faticando parecchio. Brown è in difficoltà, Ingram si farà ma il suo allenatore fa di tutto per nasconderne le mancanze, Chriss alterna una sequenza spettacolare (per lo più dal punto di vista atletico) a una tragedia (tattica). Tolto Murray, per trovare un altro giocatore che ha lasciato il college dopo una sola stagione e ha fatto bene bisogna arrivare a Deyonta Davis, 31esima scelta per i Memphis Grizzlies che gioca 8 minuti a partita.

Kris Dunn

Kris Dunn

E che dire dei “veterani” del college? Brogdon ha trovato la situazione ideale ed è stato bravo a lavorare sul tiro da fuori per trovare spazio in rotazione. Buddy Hield è stato meno fortunato ed è arrivato in un contesto disastroso come quello dei Pelicans, e neanche la presunta esperienza raccolta nei 4 anni di college gli è stata utile. Si potrebbe dire lo stesso per Kris Dunn. Vista la scelta di coach Thibodeau e la necessità di migliorare in difesa, sembrava ovvio che l’ex Providence avrebbe fatto sfracelli, ma Rubio gli è superiore in ogni aspetto, difesa e playmaking inclusi, e al momento non ci sono spazi per aumentare il minutaggio. A Sabonis è stato chiesto di cambiare radicalmente il suo gioco. Jakob Poeltl, dopo un inizio promettente, ha pochi minuti a disposizione. Pascal Siakam è sempre titolare, ma voci danno i Raptors in cerca di un upgrade in quella posizione. Brice Johnson passa più tempo in D-League che in Nba.

Questo tipo di risultati da parte dei rookie si inserisce in un discorso più ampio, quello sul sistema degli one-and-done che ha fatto la fortuna di Kentucky, ma che ha suscitato anche molte polemiche. Le voci di un possibile cambio della regola, per obbligare i giocatori a restare almeno due anni nei college, si sono susseguite nel tempo. I tempi per dichiararsi al draft sono stati cambiati per permettere ai giocatori di “ripensarci”, in caso ricevano riscontri poco soddisfacenti. Sembra esserci una spinta proveniente dalla Ncaa e dalla Nba a tenere i giocatori nel college il più a lungo possibile, scelta comprensibile vista la facilità con cui un giovane si trova fuori dalla lega.

Esiste poi l’altro lato della discussione, quello espresso da Ben Simmons nel documentario One&Done. È una questione che non può essere riassunta in poche parole. Ci sono prove, numeri, a dimostrare che è molto facile trovarsi fuori dalla lega prima ancora di aver cominciato, e di ragazzi poco più che maggiorenni che hanno bruciato il talento e la carriera universitaria È difficile per un ventenne fare scelte sensate con i soldi della Nba, e il nuovo CBA alzerà gli stipendi anche per rookie. In alcuni casi, e forse Ben Simmons sarà uno di questi, il talento potrebbe essere una motivazione sufficiente a lasciare l’università in fretta (o a saltarla del tutto). Ma la questione non è solo legata al gioco, bensì alle vite di giovani che potrebbero essere distrutte. Per ora, meglio guardare con occhio triste il tramonto della carriera Nba di James Young, scelto dai Celtics al draft 2014 dopo un solo anno a Kentucky, mai entrato in rotazione e il cui contratto non verrà rinnovato in estate.

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