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James Harden, un uomo solo al comando

Autore: Michele Damiani
Data: 10 Feb, 2019

Era chiaro da subito che James Harden fosse speciale. Quel ragazzo ciondolante con quella strana barba già a vent’anni lasciava intravedere un futuro da stella. Un ragazzo taciturno, con una personalità magnetica e un talento smisurato. Insomma, gli elementi per pronosticare una grande carriera c’erano tutti. Ma quello che sta facendo quest’anno è qualcosa di inimmaginabile, forse mai visto nella storia della lega.

I tre giovani futuri Mvp insieme ai tempi di Oklahoma. Con i Thunder, Harden vinse il premio di sesto uomo dell’anno nel 2011.

Negli ultimi due mesi nessuna difesa è riuscito a tenerlo sotto i trenta punti (29 partite consecutive). Ma, tralasciando gli assurdi numeri che sta registrando, il suo stile di gioco tanto discusso e criticato lo ha reso un rebus indecifrabile per qualsiasi sistema difensivo della Nba. Harden è riuscito ad aggiungere un tassello ulteriore alla sua pallacanestro, qualcosa che mancava per essere ancora più efficace. E lo ha fatto grazie all’aiuto dell’allenatore che più ha influenzato il modo di giocare che, negli ultimi anni, sta dominando la lega.

La sintonia con D’Antoni non era affatto scontata. Anzi, le idee di basket dei due sembravano inconciliabili. Poteva l’inventore del Seven Seconds or Less convivere con una superstar abituata a palleggiare venti volte prima di prendere un tiro in isolamento a pochi secondi dalla sirena? Si rischiava un nuovo caso Carmelo Anthony. Invece, l’attrazione fu fatale.

I due raggiunsero una sorta di compromesso: tirare o da dietro l’arco o al ferro, soprattutto tirare appena si può (mai dal mid-range). Ma viaggiare con i tempi imposti dal barba. Una specie di evoluzione (o involuzione) del gioco dei Suns 2004-2006, prodromico di quello dei Warriors di oggi: molti tiri da tre, ma ritmi più bassi. Dal 2016 ad oggi, questo compromesso ha portato in dote ai due un premio di Mvp e uno di Coy, oltre a una gara sette in finale di conference.

Se si confrontano i numeri dei Suns di Nash con quelli dei Rockets di Harden si può notare una netta distinzione: Phoenix, nel 2004-2005, era prima nella lega per ritmo, Houston quest’anno è 28esima. La differenza, però, è che quei Suns viaggiavano a 97,4 possessi a partita, mentre i Rockets ne producono oggi più di 98. Come dire, il compromesso c’è stato, ma la strada che ha intrapreso la Nba ha facilitato il sacrificio di D’Antoni.

Sul tiro da fuori si è seguita la strada di Mike: Suns primi nel 2004 per tentativi da tre punti, Rockets primi quest’anno. Anche qui, però, la differenza di numeri è forte, rappresentativa della rivoluzione tecnica che ha investito l’Nba negli ultimi dieci anni. Quella rivoluzione propiziata proprio dall’ex playmaker dell’Olimpia. Nel 2005 Phoenix tirava 24.7 triple a partita, quasi nove in più della media della lega. Houston, oggi, ne prende 44.4 (e gli ultimi della lega, i Clippers, ne prendono 24.7, proprio come Phoenix).

Il compromesso ha ampliato le potenzialità offensive del barba: nel 2014 prendeva 8 triple a partita, oggi ne prende 13.3 (leader della lega). Questo gli permette di essere un tiratore dall’arco molto più efficace di quanto dicano le percentuali; Harden ha un onesto ma non eccezionale 36% da 3 in questa stagione (in linea con il resto della carriera). Tuttavia, l’alto volume di tiri fa si che le difese di adeguino su di lui come fosse un tiratore da 50%.  Il barba sarà il primo giocatore a sfondare il muro delle mille triple tentate in una stagione essendo, dopo 50 e rotte partite, già intorno ai 700 tentativi (il record è di Curry, 886 nel 2015-2016).

Inoltre, grazie alla sua innata abilità nel guadagnare falli, spesso riesce a subirne da dietro l’arco, incontrando le mani degli avversari. Harden è primo nella lega per tiri liberi tentati (11,6 a partita, con l’86,7%). Con Memphis, all’inizio di gennaio, ne ha tentati addirittura 27 (record in carriera). Contro i Knicks, oltre ad aggiornare a quota 61 il proprio career high, ha tentato più di 20 triple e più di 20 tiri liberi: nessuno nella storia della Nba ci era mai riuscito. Triple e ferro, ma a ritmi bassi: è la sintesi dell’incontro tra barba e baffo.

Dal punto di vista statistico, Harden sta vivendo una delle migliori stagioni offensive della storia della lega con i suoi 36.5 punti di media (l’ultimo a registrare cifre simili fu il Bryant nel 2006, che chiuse la stagione a 35.4 punti a partita). Ha siglato due triple doppie con più di 50 punti (solo 6 giocatori nella storia ci sono riusciti, lui lo ha fatto 4 volte).

E’ al massimo in  carriera per quanto riguarda punti, tiri tentati e segnati (dal campo, da tre e dalla lunetta), e per palle rubate (2 a partita). Grazie a questi numeri è riuscito a tenere in linea di galleggiamento Houston senza il supporting cast adatto a causa di infortuni e problemi vari (Anthony docet). La striscia di 87 canestri consecutivi non assistiti (per 302 punti) sta li a dimostrare come Harden abbia tirato la carretta da solo per molto tempo.

La sublimazione di questo concetto si è avuta nella miglior partita giocata da Harden in stagione, sul campo dei Golden state Warriors lo scorso 3 gennaio. Senza Chris Paul e Eric Gordon, il barba ha praticamente battuto da solo una delle migliori squadre della storia Nba: ha chiuso la partita con una tripla doppia da 44, 15 e 10 lasciando a bocca aperta il pubblico per alcune giocate, soprattutto a ridosso della sirena. Prima, con il suo proverbiale step back, ha trascinato la squadra ai supplementari.

 

Poi, con un incredibile canestro da tre punti segnato nonostante la marcatura stretta di Klay Thompson e Draymond Green, due dei migliori difensori della lega, ha deciso la partita, salvando anche gli arbitri da uno dei più clamorosi errori degli ultimi tempi.

Il pazzesco finale della gara tra Rockets e Warriors: Harden pareggia la partita conquistando due tiri liberi, Curry sigla il più due dopo che Durant aveva salvato la palla con entrambi i piedi fuori dal campo. Alla fine, ci pensa il barba, che realizza la tripla del definitivo 135 a 134 in faccia a Thompson e Green.

Tra le tante meraviglie che Harden ci sta regalando in questa stagione, lo step-back merita un capitolo a parte. Oltre alla sua efficacia, il movimento rappresenta un altro aspetto del nuovo basket d’oltreoceano: la possibilità di prendere tiri dal palleggio, senza aspettare uno scarico uscendo dai blocchi, aumenta di molto le opportunità di prende tiri dall’arco. Ormai è diventata una specie di moda nella lega, replicata da molti

 

ma non apprezzata da tutti.

Alla fine, James Harden è questo: uno straordinario realizzatore che non sarà mai amato da tutti per via del suo gioco troppo accentratore. La palla la gestisce lui, i tiri se li crea da solo, produce tanti assist (è uno straordinario passatore) ma sempre grazie al suo immenso talento, non a un coinvolgimento di squadra. Costringerlo a un altro tipo di gioco vorrebbe dire snaturarlo, renderlo meno efficace. Si tratta di capire se con questo tipo di gioco, una specie di “hero ball” già dal primo quarto, si possa arrivare alla vittoria. I tifosi di Houston lo sperano, qualcun altro non è d’accordo.

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