Un panorama affascinante e in crescita, ma anche intricato. I college guardano sempre di più all’Europa e questo ormai avviene a tutti i livelli, non solo in Division I. La prospettiva può essere molto allettante per un giocatore, ma anche difficile da decifrare correttamente e piena di trappole da schivare (basti pensare a tutti i requisiti necessari per essere eleggibili). È qui che spesso intervengono soggetti terzi utili, se non vitali, per fare da ponte col mondo a stelle e strisce. Uno è Elite Euro Talent, animata da due coach che organizzano showcase camp e che s’impegnano nel trovare il fit giusto per i giocatori nel vasto universo USA che va dalle prep school alle università. Ecco cosa ci hanno raccontato durante il loro ultimo camp (tenutosi quest’estate vicino Bologna) i due fondatori di EET – l’americano Jason Benadretti e l’italiano Tomaso Sasdelli – a proposito della loro esperienza.
Com’è nata Elite Euro Talent?
Jason Benadretti – Nel 2015, Tomaso e io notammo che le famiglie dei giocatori international avessero bisogno di aiuto. C’era un gap in termini di comprensione sul come andare oltreoceano, come cercare opportunità sia dal punto di vista sportivo che accademico. Quell’anno mettemmo in piedi il nostro primo evento nel sud della California. Uno dei nostri ragazzi, dall’Estonia, andò in Division I subito dopo il camp. All’improvviso ci ritrovammo tutti questi ragazzi che volevano andare negli Stati Uniti. Questo è più o meno ciò che ha dato il via a Elite Euro Talent e ora si è trasformata in placement per le high school visto che, se vuoi andare al college, la miglior strada è andare negli USA il prima possibile, ma ci occupiamo anche di ragazzi europei che vogliono giocare da pro in un paese altro rispetto al proprio.
Tomaso Sasdelli – Collocammo il nostro primo giocatore, una guardia di grande taglia dalla Svezia, a Loyola Marymount. All’epoca era abbastanza facile perché i giocatori europei erano visti come raffinati, esotici. E all’epoca gli allenatori di college non frequentavano i tornei FIBA. Nel 2016 ero a Sofia per gli Europei U16 e non c’erano coach NCAA. Due anni fa a Podgorica, l’ultima edizione alla quale abbiamo potuto assistere, era pieno. Stanno andando tutti verso i giocatori europei, quindi c’è una concorrenza molto più dura: anche se sei un buon giocatore, potresti far fatica a ricevere un’offerta.
Quindi il panorama del reclutamento universitario all’estero si è evoluto durante questi vostri sei anni di attività…
Jason – C’è un panorama competitivo adesso. Ci sono così tanti ragazzi, ognuno vuole opportunità e i college hanno iniziato a svegliarsi. Ma abbiamo notato che i ragazzi che vanno di là, crescono. Quindi anche se vogliono tornare a casa e giocare da professionisti, la maggior parte tornano migliorati, perché una grossa componente è quella fisica. Negli USA le strutture sono molto più avanzate: non che i club in Europa non facciano un buon lavoro, ma semplicemente ci sono così tanti diversi vantaggi quando hai più denaro a disposizione.
Qual è lo stato del gap fra America ed Europa cui accennavate prima?
Jason – Ci sono tanti coach che non sanno nemmeno dove si trovano i paesi europei. Se indichi una cartina e chiedi “Dov’è l’Estonia”, indicano il Sudafrica. È triste, ma vero. Per questo diciamo ai nostri giocatori di rendersi conto che questo è il genere di cose contro le quali devono scontrarsi. È dura trovare un allenatore con la mentalità giusta. Penso che i coach che hanno maggior successo in Europa sono quelli che capiscono le differenze e che s’impegnano a venire qui. Al nostro ultimo evento c’era un allenatore di Division II e gli demmo l’opportunità di informarsi, perché un conto è reclutare in Europa e un altro è venire qui, conoscere la gente del posto, essere parte della scena e capire che i giocatori europei non sono tutti uguali.
Tomaso – D’altro canto, coi giocatori europei e le loro famiglie c’è lo stesso discorso. Non sanno molto sull’iter per andare negli Stati Uniti. Ecco perché li istruiamo con le nostre info session. Tutti vedono il Torneo NCAA e vogliono andare nelle grosse università, nelle Duke e nelle Kansas, il che non è possibile.
Ed è qui che diventa importante far capire ai ragazzi il valore delle mid-major…
Jason – Penso che Oral Roberts, che ha reclutato un nostro estone, sia un buon esempio. Hanno reclutato all’estero e l’hanno fatto bene. Sono passati dall’essere una università fuori dai radar a una da Elite Eight, e ora tutti gli international conoscono ORU. Adesso sono in grado d’inseguire giocatori di calibro più alto e questo perché hanno portato lì i ragazzi giusti.
Tomaso – Due anni fa dicevamo “Abbiamo un college molto buono che si chiama Oral Roberts”, e tutti reagivano tipo “No, voglio Duke”. O ci sono ragazzi che credono di poter andare tipo a Princeton solo perché hanno buoni voti. Per non parlare di tutte le possibilità in D2, D3, NAIA e junior college…
Jason – Stiamo provando a ridurre il gap fra USA ed Europa per le famiglie, ma anche per i college americani, perché ci sono talmente tante opportunità e non vogliamo che i ragazzi e le loro famiglie se le facciano scappare. Se hai una grande opportunità in D3, acchiappala. Perché non sai mai cosa ne possa nascere.
Qual è il profilo di giocatore più ricorrente col quale vi trovate a lavorare?
Tomaso – Il 90% dei giocatori sono bassi, quindi il 90% delle richieste che riceviamo provengono da giocatori alti 1.80 o poco più. Per loro è molto difficile perché in America dovrebbero competere con guardie molto atletiche e forti fisicamente. La grande sfida per loro è essere notati.
Jason – Realisticamente, se ne hai l’opportunità, è negli USA che devi stare. Sono coach di college americani, quindi se sei sotto il loro naso avrai maggiori probabilità. Penso che questo sfugga a molti ragazzi. Non dico che se vai negli USA avrai automaticamente un’opportunità. Tutto quel che possiamo fare è aiutarti a essere in posizione di avere esposizione, ma il resto dipende sempre dal giocatore – lavorare duro, avere ottimi voti, fare le cose giuste dentro e fuori dal campo. Se vuoi incrementare le tue possibilità, va dove stanno i coach. La realtà è che la maggior parte delle opportunità stanno a livelli altri dalla Division I e penso che gli international stiano iniziando a capire che ci sono grandi opportunità anche al di fuori della D1.