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Carmelo Anthony, storia di un’incompiuta

Autore: Michele Damiani
Data: 15 Dic, 2018

Parlare di Carmelo Anthony vuol dire raccontare la storia di molti personaggi diversi, spesso in contraddizione tra loro. Partendo dalla fine, viste le ultime due stagioni verrebbe da sottolinearne tutti i difetti. Guardando la sua carriera collegiale e olimpionica, invece, si può parlare di una leggenda del basket, un campione. Gli episodi difficili vissuti fuori dal campo lo inquadrano come un tipo poco raccomandabile, un cattivo partito. Tuttavia, è uno dei giocatori più attivi nella difesa dei diritti civili e nel sociale, sempre attento alle esigenze delle sue tre case: New York, Baltimora e Portorico.

E’ uno dei migliori attaccanti e allo stesso tempo uno dei peggiori difensori della storia dell’Nba. Dopo quindici stagioni si trova senza squadra (e senza anello), nonostante sia uno dei giocatori più iconici della sua epoca. Come ha fatto a trovarsi n questa situazione?

Nella vita non gli sono mancati ostacoli da superare. Carmelo nasce a Brooklyn nel 1984 da madre statunitense e padre portoricano, morto di cancro quanto Melo aveva solo due anni. Nel 1992 mamma Mary, rimasta sola con quattro figli, viste le difficoltà incontrate a New York decide di trasferirsi a Baltimora. Una scelta quantomai sfortunata. A otto anni, Carmelo si trova in uno dei quartieri peggiori (chiamato “Chemistry”, farmacia, per via dello spaccio di droga) di una delle città più pericolose d’America.

Una tipica storia Nba, dove la palla a spicchi rappresenta uno dei pochi mezzi per evitare la strada. E Carmelo con la palla ci sa fare. I primi tre anni delle high school li passa alla Towson Catholic High School, con ottimi risultati sul campo e pessimi sui banchi. Da qui il passaggio in Virginia, alla Oak Hill academy, una scuola più rinomata per non rischiare l’accesso al College. Perché Anthony, a differenza di altre stelle liceali dell’epoca, all’università ci vuole andare. Seguendo il saggio consiglio della mamma. Passato per un pelo l’esame di ammissione, il giovane Melo opta per l’università di Syrcause, New York, nonostante la madre lavorasse all’università di Baltimora. Ne aveva abbastanza del Maryland.

[Melo e Lebron in un duello ai tempi delle high school]

La scelta di passare per il college, invece di tentare subito il salto in Nba (con chiamata sicura al primo giro) è  una di quelle sliding door che segnano la vita di un atleta. In questo caso, Carmelo ha fatto la scelta giusta, la più adatta alla sua carriera. In Ncaa i giocatori non vengono pagati e il rischio infortunio è dietro l’angolo, contrapposto alla possibilità di uno stipendio milionario a cui è difficile rinunciare, specie per un ragazzo cresciuto nel contesto familiare di Melo. La scelta giusta per lui, per il suo futuro, a discapito della gioia momentanea. Non sempre prenderà questa strada in carriera.

La scelta ha portato a una delle migliori stagioni nella storia dell’Ncaa. I numeri non sempre dicono la verità, ma spesso rendono l’idea: Anthony è stato lead scorer in 25 delle 35 partite giocate in stagione (record); è stato nominato 10 volte Rookie of the Week della Big East (record); ha segnato 33 punti e preso 14 rimbalzi alle Final four per poi vincere il titolo Ncaa e il premio di Most outstanding player (20, 10 e 7 in finale). Nonostante abbia passato solo un anno in orange, Syracuse ha pensato bene di ritirare la maglietta di quello che è il più grande giocatore della loro storia.

Anthony si presenta al draft delle meraviglie del 2003 come una star e viene scelto alla terza da Denver. La prima stagione è un successo: Melo diventa presto il leader della squadra, trascinando i Nuggets ai playoff con 21 punti, 6 rimbalzi e 3 assist di media. Quell’anno Anthony ha vinto tutti e 6 i premi di rookie del mese della stagione; peccato che ad est avesse esordito anche un ragazzo di Akron.

 

Gli otto anni passati a Denver rappresentano forse il periodo migliore della carriera di Melo. Sempre ai playoff, presenza fissa all’All star game, era diventato una delle stelle della lega. Ora voleva fare il grande salto. Messe alle spalle la squalifica di 15 giornate del 2006 per il pugno a Mardy Collins e la finale di conference persa contro i Lakers del 2009, due anni dopo è pronto a diventare il giocatore franchigia di una contender che, nella sua testa, non poteva essere Denver.

[Alcune azioni di Anthony nella sua esaltante stagione da rookie]

Dopo un lungo tira e molla, passato alla storia come #Melodrama, nel febbraio 2011 i New York Knicks offrono Wilson Chandler, Raymond Felton, Danilo Gallinari, Timofey Mozgov e una prima scelta in uno degli scambi che diventerà il modello di cosa non fare in una trattativa. La velocità con cui i Nuggets accettano nasceva dalla paura che i Knicks capissero la portata dell’errore che stavano commettendo. Ma Carmelo era pronto a dare la definitiva svolta alla sua carriera, oltretutto da profeta in patria.

E svolta fu, ma non nel senso sperato dal ragazzo di Baltimora. I primi tre anni, nonostante buone performance personali (capocannoniere nel 2013) avevano fatto emergere tutti i limiti di Anthony: l’incapacità di coinvolgere i compagni e la scarsa attitudine difensiva unite alle incomprensioni con lo staff tecnico, facevano di lui una superstar viziata piuttosto che un giocatore franchigia.

Tra Anthony e D’Antoni non è mai corso buon sangue. Troppo diverse l’idea di basket che i due hanno in mente. A Houston se ne è avuta la riprova

Nel giugno del 2014, dopo aver mancato i playoff per la prima volta in carriera, Anthony esercita la clausola ed esce dal contratto con i Knicks. Melo ha la possibilità di prendere un’altra scelta giusta per la sua carriera, dopo quella di passare per il College: i tre anni ai Knicks avevano detto che gli serviva un ambiente che lo proteggesse di più, in campo e fuori. Inoltre, avevano detto che non era un leader. Accettare un ruolo da secondo violino sarebbe stata la scelta più saggia.

[Anthony è uno dei migliori giocatori “clutch” della sua epoca. Qui alcuni esempi di cosa sa fare nei secondi finali di gara]

Tuttavia, questa volta non c’era mamma Mary a consigliarlo; il 13 luglio Melo firma un quinquennale da 129 milioni di dollari con i Knicks e, in sostanza, dichiara chiusa la sua rincorsa all’anello. Dopo tre stagioni anonime, il passaggio a Okc fu ciò che doveva essere e che non è stato: Carmelo seconda/terza scelta offensiva, protetto da una buona struttura difensiva, senza particolari compiti di leadership. In questa veste poteva essere un vincente. Ma ormai era troppo tardi.

Le critiche a Anthony, iniziano da tre punti. Il primo è la difesa: Melo non ha capacità né voglia di difendere. Non è un caso che la stagione migliore della sua carriera sia stata a Syracuse. In un meccanismo difensivo perfetto come la zona 2-3 di coach Boeheim, dove ogni elemento si muove come un ingranaggio. Il secondo è relativo agli isolamenti e ai troppi tiri presi. Nelle prime 14 stagioni Nba Carmelo ha tirato meno di dieci tiri a partita solo in sette occasioni. Il terzo è quello degli atteggiamenti: Melo si crede un leader di diritto e non è disposto a discutere del suo status. Emblematica in questo senso la conferenza stampa di presentazione ad Okc, quando alla domanda su un possibile utilizzo dalla panchina ha risposto con una risata sprezzante.

D’altra parte, chi lo elogia ha argomenti a sua difesa. Anthony è il miglior marcatore nella storia della nazionale Usa e è l’unico ad aver vinto 4 medaglie olimpiche, di cui tre d’oro consecutive. Inoltre, è considerato uno dei migliori attaccanti della sua generazione. E’ il 19° miglior marcatore all-time della lega ed è sua la miglior prestazione di sempre al Madison square garden (62 punti contro Charlotte nel gennaio del 2014).

[Nel febbraio del 2014 Anthony supera il record di punti in una singola partita al Madison di Kobe Byant (61 punti). Uninca gioia di una stagione disastrata]

Paul Pierce, nell’indicare la sua top 5 degli immarcabili (mettendolo al primo posto), ha dato una definizione perfetta della sua completezza offensiva: “È una miscela unica di stazza, forza e atletismo, con inoltre un tocco di primissimo livello al tiro e un’abilità naturale di raggiungere il ferro. Alcuni giocatori hanno una o due capacità che li rendono speciali, ma Carmelo sa fare tutto, il che ti mette in una pessima situazione se devi difendere su di lui”. 

Alle soglie dei 34 anni Melo non ha grandi prospettive davanti a se. L’opportunità Lakers sembra sfumata ormai.

PortoRico ha già fatto sapere che accoglierebbe a braccia aperte il ritorno del figliol prodigo. Secondo Tracy McGrady, invece, la scelta giusta sarebbe quella del ritiro.

Qualunque sarà la sua scelta, ormai non ha più molta importanza: a prescindere dai suoi mille difetti, Melo è entrato nella storia di questo sport, è stato un idolo di molti ragazzi per anni, ha fatto sognare una generazione. Non sarà come vincere un anello, ma non è una cosa di tutti i giorni.

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