Ha iniziato a giocare, ma ha capito presto che non era quello il suo ruolo. Filippo Sacripanti ha quindi deciso di seguire l’esempio di suo zio Pino, che ha passato quasi vent’anni della sua carriera da coach a Cantù per poi girare tutta l’Italia, allenando a lungo anche la Nazionale Under20 che ha portato al titolo europeo nel 2013. Ispirato da un’intervista a Riccardo Fois, dal piccolo paese della Brianza è volato in Arizona perchè in fondo il mondo è piccolo e a Phoenix ha trovato un giocatore che proprio a Cantù ha iniziato la sua decennale carriera italiana.
Ora Filippo Sacripanti è head student manager di un college come GCU che di mid major ha tutto sommato molto poco. Ecco il racconto della sua esperienza americana.
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Hai iniziato a giocare a basket nelle giovanili di Cantù e poi quando hai deciso di seguire le orme di tuo zio?
Ho giocato nel Progetto giovani di Cantù e ho smesso nell’anno del covid e subito dopo ho avuto l’opportunità di lavorare con Marco Sodini e il suo staff ed è stato un anno per me super, perché Sodini è un super coach e mi ha aiutato tantissimo a switchare la mia testa da giocatore ad allenatore. Lo ringrazio perché mi ha fatto molto piacere e ho lavorato con un grande staff con Max Oldoini e Fabrizio Frates, quindi gente di grande conoscenza del basket che mi ha molto aiutato nel mio percorso.
Perché hai fatto questo switch?
Volevo diventare pro ma non lo sono diventato, ero un giocatore da serie C. Volevo rimanere ad alto livello in qualche modo e un giorno durante il covid, quando era tutto fermo, ho visto con mio zio un servizio in televisione su Riccardo Fois quando era ai Suns e ho detto a mio zio: ‘mi piacerebbe anche a me fare una cosa del genere, ma non è che lo conosci’?. ‘Certo – mi ha risposto lui – ci ho lavorato insieme in nazionale per anni’, e poi lo ha chiamato e io ci ho parlato per tipo due ore, gli ho chiesto qualsiasi cosa e da lì ho iniziato il mio percorso verso il college.
Quindi Fois ti ha fatto venire voglia di America, qual è stato invece il ruolo di tuo zio?
E’ mio zio, ma è come se fosse il mio idolo. Quando giocavo e lui era a Cantù, io facevo allenamento, poi guardavo il suo e di fatto stavo al Pianella dalla mattina alla sera. L’ho sempre seguito ovunque, ha avuto un ruolo fondamentale nella mia vita. Sono molto contento di essere cresciuto così, nel mondo del basket, e lui mi ha indirizzato verso una strada ben chiara.
Prima di parlare con Fois, che rapporto avevi con il college basket?
Mi ha sempre affascinato ma non ero un fanatico, guardavo le March Madness, ma non stavo sveglio la notte. Mi piaceva la parte del draft, mi gasava anche tutto il contorno dei fan, non conoscevo troppo ma mi è sempre piaciuto.

Filippo Sacripanti
Perché hai scelto GCU e qual è stato il percorso che ti ha portato là?
Ricky mi dice: ‘Prendi 5 scuole in cui vorresti andare, due devono essere posti facili in cui arrivare e tre devono essere dei sogni’. E io faccio la mia lista dove ci metto Duke, North Carolina e Ucla e poi mi son chiesto quali sono le due raggiungibili. Allora chiedo a mio zio se conosce qualcuno nel mondo del college e lui mi dice che a GCU c’è Casey Shaw con cui ha un rapporto bellissimo, è come se fosse mezzo canturino. L’ho chiamato, mi ha spiegato tutto e mi ha detto che potevo andare lì. Allora ho fatto tutti gli esami e sono andato in Arizona l’anno dopo, da ultimo degli arrivati e per di più europeo quindi figuriamoci, non hai lo stesso trattamento che ha un americano, ma ho avuto una bella fortuna perché è un posto speciale.
Abbiamo appena intervistato Filippo Messina che, dopo una vita in grandi città come Mosca, Madrid e San Antonio, è finito in un piccolo centro come Durham. Tu hai fatto il percorso inverso e da Cantù sei andato a Phoenix, com’è stato questo passaggio e com’è la vita nella capitale dell’Arizona?
Non è stato facile, ma la fortuna di questo posto è che è come se fosse una città chiusa. Siamo in centro a Phoenix, un tempo era una zona malfamata ma adesso l’hanno ripulita tutta però il campus di fatto è chiuso all’interno delle mura, non nel senso brutto però ci sono letteralmente delle mura. Ci sono 25mila studenti all’interno e vivi la tua vita qui, hai tutto qui dentro, poi la città di Phoenix non è gigante, di più e, a parte il caldo, è veramente super.
Perché non è stato facile?
Perché ero a 10mila km di distanza da casa mia, non è la cosa più facile da fare, non conoscevo nessuno a parte Casey e comunque non è stato facile andar via da casa.
Casey Shaw era già nello staff di Vanderbilt e Bryce Drew l’ha portato con sé a Phoenix nel 2020. E in questi 5 anni GCU ha fatto un salto di qualità. Che tipo è il coach dei Lopes?
Drew è pazzesco, si vede dai risultati, è una persona super, ha una capacità incredibile di switchare dal buon uomo che è al super coach che è in campo, mai vista una così in vita mia. E’ una mente cristiana, siamo in un college cristiano ed è una cosa molto importante perché prima vengono gli altri secondo la mentalità di Grand Canyon e poi vieni tu, nel senso prima aiuti gli altri, poi aiuti te stesso. E questo da quando è arrivato Drew è una cultura che oggettivamente non so in quanti altri posti ci sia, è speciale, è un coach di altissimo livello sia tecnico-tattico che di gestione delle persone.
Un college privato cristiano, dicci qualcosa di più su Grand Canyon.
GCU è un posto incredibile. C’è Jerry Colangelo dietro a tutto, fa l’advisor e non è l’ultimo arrivato, quindi abbiamo tutto quello che ci serve, con fan che sono la fine del mondo e un impianto sempre sold out. Non ci manca veramente niente, sono sicuro che, soprattutto se Drew rimarrà, questo programma diventerà top in molti meno anni di quanto ci si aspetta.
Il campus di GCU
Sei ormai un veterano tra gli student manager, cosa ti chiede di fare Drew?
Sono partito da fare le cose più ‘sporche’ ovvero dalle bottigliette a pulire il sudore degli ultimi giocatori a fare le lavatrici, poi ho scalato posizioni e ora sono Head Manager. Gestisco i video e meglio di così non potevo chiedere. Con Drew ci parlo a livello personale, ma non troppo di questioni lavorative, quelle me le chiedono direttamente gli assistant coach. Drew dice a loro e loro dicono a me, ma ovviamente se lui ha bisogno di qualcosa me lo dice. Faccio live practice, gli taglio l’allenamento live a seconda di quello che gli serve e durante le partite gli taglio tutto live, quindi alla fine della partita hanno già tutto e ogni coach si prende quello che gli serve per analizzare la partita. E poi certe volte hanno bisogno di una mano in più per preparare le partite.
Quanti siete nello staff?
C’è Bryce Drew, poi 6 assistenti, più 3 graduate assistant, più 10 manager.
E’ un tipo di coaching staff interessato alla pallacanestro europea e chiede pareri su quel tipo di gioco o è un po’ più chiuso?
Sì, in questi anni con l’arrivo di tanti giocatori europei l’interesse è sicuramente aumentato, ho visto già la differenza dal primo anno in cui sono arrivato ad adesso. Si guarda di là, si guarda l’Eurolega e i campionati maggiori.
Qual è la differenza più grande tra il mondo europeo e quello americano?
La grande differenza è che qui hai così tante opportunità a livello di strutture, una cosa che non hai in Italia. Nella nostra practice facility, hai 6 canestri, 10 manager a disposizione, 6 allenatori e chiaramente lavori in modo più specifico con tutti e quindi il lavoro che fai con i gruppetti di giocatori è molto più intenso di quello che fai con due canestri. Il lavoro individuale qui è molto più specifico, non è una colpa dei singoli programmi europei ma di tutto il sistema Europa, qui hai persone e strutture che rendono tutto più facile. A livello di gioco, in attacco in Europa è un po’ più ragionato ma qua si va mille. Non so quale è meglio, è semplicemente diverso.
Con Drew avete vinto la prima partita al Torneo, come si vive la March Madness e come anche la fase prima, visto che nella maggior parte delle conference mid major va solo una squadra al torneo?
I primi anni il pre è stato di pura tensione, non eravamo mai arrivati fino in fondo e si lavorava da ammazzarsi dalla mattina alla sera e la gioia era anche maggiore. Ora, purtroppo, è scontato che noi dobbiamo vincere e anche lì c’è una grande tensione anche se è positiva, e adesso si aspettano che GCU vinca anche la Mountain West. Fortunatamente abbiamo uno staff abituato a vincere, Drew ci è riuscito in 4 anni su 5 che è qui.
Filippo Sacripanti con il ‘ticket’ per la March Madness
E’ infatti un anno di svolta per GCU che da questa stagione giocherà nella Mountain West, probabilmente la migliore tra le conference mid major. Come sta vivendo l’università questo passaggio e cosa vi aspettate?
Il salto di qualità non è banale ma la squadra è sul pezzo, non so dirti se arriveremo fino in fondo ma daremo fastidio.
Da una squadra quasi tutta di senior, ora ce n’è una ben diversa con molte facce nuove, com’è stata questa ricostruzione?
Siamo stati molto impegnati, non abbiamo un gm quindi tutti i coach facevano mezzo gm e chiamavano agenti ed è venuta fuori una bella squadra, un bel reparto lunghi che non avevamo, con Demirel dalla Turchia sul quale scommetto e Dennis Evans, un 2.10 con due braccia che toccano il soffitto. Non abbiamo magari tutto il talento individuale dell’anno scorso, ma forse è meglio così e siamo più squadra.
Tu sei un veterano ormai del college basket, come hai visto cambiare l’Ncaa da quando sei arrivato a Phoenix e come si sta strutturando?
Quando sono arrivato parlavo solo con ragazzi americani e ora parlo con ragazzi asiatici, europei… lì capisci che c’è un’espansione maggiore. Personalmente ritengo un gm essenziale a questo livello, immagino che ne arriverà uno anche qua, visto come lavorano i coach e non credo sia fattibile, tra agenti e contratti serve una figura che gestisca tutto questo se vuoi stare ad alto livello. Il problema non è trovare i giocatori buoni, ma strutturare dei contratti sensati.
Filippo Sacripanti nel pre partita
GCU non ha la squadra di football e quindi la squadra di basket ha molti più soldi a disposizione ed è teoricamente avvantaggiata rispetto alle avversarie. E’ così?
E’ così, siamo le star del campus, il presidente ogni volta che parla del basket dice che è il suo sport preferito e il football non esiste nella sua vita. Vuole solo il basket e quindi nella sua vision GCU deve diventare una top del college basketball. E’ una grandissima fortuna per noi, inutile negarlo, abbiamo avuto il budget che vogliamo, ovviamente nei limiti, tutte le attenzioni, abbiamo tutto quello che ci serve, non abbiamo problemi di soldi e di atmosfera a palazzo, e invece quando hai una squadra di football non è così facile crearla. Soprattutto per un posto così grande, con 100mila studenti online e 25mila in presenza, un mondo gigantesco, già avere come prima cosa il basket e 100 gradini sotto tutti gli altri sport non è male.
Vedi una differenza forte tra international e americani a livello di soldi?
Sicuramente, non è un argomento facile. Gli internazionali tra tasse e altro prendono molto di meno. Chiaramente dipende da che tipo di giocatore sei, se sei un fenomeno o un giocatore forte, ma anche in questo secondo caso io non mi lamenterei perché prendi comunque più soldi rispetto all’Europa, giochi in un ambiente incredibile, non c’è molto da lamentarsi. Dall’altro punto di vista, li capisco anche perché vedi un giocatore del tuo livello o anche un pochino sopra che prende 500mila dollari più di te e mi girerebbero anche a me. Sta cambiando veramente tanto tutto, nessuno ha bene idea di cosa sta succedendo, è come se fossimo alle prime armi ogni anno, come se fosse tutto nuovo ogni volta.
Ma infatti in pochi si lamentano e sono sempre di più ad andare in America. Tu che sei ancora in contatto con Cantù, che è sempre stata peraltro una delle società più attente al settore giovanile in Italia, senti questo maggiore interesse verso l’Ncaa?
Eccome, tantissimo. Ricevo telefonate come se io fossi sulla luna, lo vedo sempre questo interesse, sento tanti che mi chiedono tutto, sono interessati a un mondo che è affascinante sia dal punto di vista dello staff tecnico, visto che a livello stipendi qui è come essere su marte e lavori la metà di quello che lavori in Italia visto che la stagione è ben più corta, sia per i giocatori: ho fatto l’Eurocamp a Treviso, e ringrazio Gianluca Pascucci per avermi fatto fare questa esperienza, e tutti mi chiedevano, c’erano giocatori di altissimo livello che volevano sapere com’è e come funziona. Non le superstar che sono già qua, ma i giocatori di livello più basso non hanno la minima idea e mi chiedevano tutto, dagli allenamenti alle partite. C’è interesse, è innegabile.
E’ il tuo ultimo anno a GCU, come vedi il tuo futuro?
Non lo so ancora, voglio vedere le opportunità che ho, qua è un posto super, mi è piaciuto tantissimo e lo rifarei centomila volte. Vediamo se posso restare, cosa c’è in Europa. Voglio fare qualcosa che mi piace indipendentemente da dove sono, poi se devo parlare di sogni, parlo di Eurolega o Nba. Sono molto affascinato dal front office ma non ho idea di come funzioni, voglio vedere cosa mi capita.
Ci è stata suggerita un’ultima domanda parecchio scomoda: come pensi di poter superare nella tua carriera un risultato storico come la vittoria nel Trofeo delle Regioni del 2017?
Oltre il Trofeo delle Regioni non si può andare, non si può vincere niente di più bello (ride).