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Mattia Da Campo, panchina addio

Autore: Riccardo De Angelis
Data: 26 Apr, 2019

Mattia Da Campo è fra quegli italiani in NCAA che hanno giocato il loro basket migliore nella stagione appena trascorsa ed è di sicuro quello che ha avuto l’annata più strana. Il giocatore di Seattle aveva trovato solo briciole nei primi due mesi di stagione e poi ha finito per giocare 35.5 minuti di media nelle ultime 13 gare. Insomma, da panchinaro a titolare inamovibile nel giro di qualche match. Qualcosa che non succede tutti i giorni.

«Sono arrivato all’anno da junior dicendomi ‘ok quest’anno i senior sono andati via, finalmente è il momento di giocare’», ci racconta. Dopo aver avuto pochissimo spazio nei primi due anni di college, il momento giusto sembrava alle porte. Sembrava, appunto: «Eravamo in tanti in squadra, quindi era facile uscire dai primi 7-8. Alla prima partita, contro Stanford, ho giocato un minuto e ho pensato ‘non è che mi faccio un altro anno in panchina?’. È andata così per le prime dodici partite. Giocare due o tre minuti non è giocare. Ero un po’ preoccupato».

Poi cos’è successo?

Matej Kavaš si è infortunato e dopo Natale, all’ultima partita del 2018, il coach viene da me e mi fa: “Oggi parti titolare”. E io: “Cosa?!”. In quella partita contro Cal avevo giocato bene ma la svolta è arrivata poco dopo con quella contro Chicago State: da lì in poi ho giocato sempre tantissimo. È stato un cambiamento pazzesco!

È vero che sei diventato titolare mentre Kavaš e altri erano infortunati, però poi sei rimasto nello starting five anche quando la squadra è tornata al completo. Cos’è in particolare che ha convinto coach Jim Hayford?

Sono rimasto titolare perché avevamo bisogno di qualcuno che difendesse il miglior giocatore avversario, che prendesse rimbalzi. Non avevamo questo giocatore. Poi sono entrato io a fare queste cose. Alla Stella Azzurra ero abituato a giocare tanto però per due anni non lo avevo fatto. È stato bello ritornare a queste cose.

Già ai tempi della Stella eri un tuttofare. Sei rimasto tale però hai portato il tuo gioco su un livello diverso. In quali aspetti senti di essere migliorato maggiormente?

Penso di essere un tiratore cento volte migliore rispetto a quello della Stella. Lo dico sinceramente, me lo sento proprio dentro. In tutto questo tempo, non giocando, mi sono concentrato sull’andare in palestra ogni giorno e migliorare su questo aspetto. Poi fisicamente…

Sei tipo il doppio, onestamente!

[Ride] Sì ma non è solo quello. Salto di più e corro più veloce. È anche normale, allenandosi qui in America: è quello che vogliono. Mi sento proprio un giocatore diverso. In realtà mi sentivo così anche al secondo anno, solo che non avevo avuto occasione di dimostrarlo.

 

A conti fatti, è come se tu avessi smentito Hayford, rispetto a quelle che erano state le sue scelte all’inizio. Per caso ti ha detto qualcosa di particolare in quel periodo in cui sei diventato titolare?

Sì, dopo due partite mi aveva detto: “Mattia ho fiducia in te, adesso so che puoi stare in campo, se continui così giocherai titolare ogni singola partita per il resto della tua carriera al college”. Vedendola dalla sua prospettiva, lui non poteva sapere cosa potessi fare, cioè saper fare un po’ di tutto.

Anche perché o fai come New Mexico State dove giocano in dodici, oppure se giochi in sette è più difficile da vedere. E parlando di NMSU, come vedi le cose nella WAC l’anno prossimo? Loro sono sempre la squadra da battere e nella prossima stagione sembrano destinati a essere ancora più forti.

Parto parlando di noi. A parte Kavaš che va via [lascia Seattle da grad transfer e molto probabilmente andrà in una high-major, ndr], siamo la stessa identica squadra. Avremo un anno di esperienza in più e i freshman di quest’anno, che sono buoni ma non giocavano mai, avranno un po’ più di spazio. New Mexico State perde pochissimo quindi sono sempre lì a un livello sopra a tutti. Alla fine è solo questione di fare una partita buona a Las Vegas. L’upset devi farlo prima o poi per vincere la WAC.

Com’è l’ambiente di Seattle U, in una città dove fondamentalmente siete all’ombra di Washington?

Vorrei dire che c’è una rivalità con Washington ma loro sono talmente grandi che non c’è neanche questo antagonismo perché si sa che loro sono la squadra di Seattle. I nostri fan sono quelli che frequentano o hanno frequentato la nostra università, loro invece sono seguiti da tutti.

E come ti trovi a vivere lì?

A me piace un sacco, sinceramente. Non sono meteoropatico, non m’importa se non c’è il sole tutti i giorni. È una città molto ricca, ci sono un sacco di soldi che girano: la vita costa tanto ma il livello di vita è molto alto. Io sono andato a GCU [a Phoenix, ndr] da Ale Lever è lì proprio un altro mondo.

Un altro mondo in tutti sensi, perché loro hanno dei tifosi fuori di testa.

Sì, ogni partita lì è uno spettacolo. Quando vado lì a giocare da loro sono sempre eccitato perché è una figata, un ambiente molto bello. Poi dobbiamo ancora vincere una volta…

Facendo mente locale a tre anni fa, cos’è che hai trovato di diverso negli Stati Uniti rispetto a quello che immaginavi?

Guardando il college basket in televisione, perché ero già un appassionato, mi aspettavo di arrivare in una scuola con, che so, diecimila fan. Invece sono arrivato in un ambiente un po’ più piccolino. Poi io, stupido, da freshman mi aspettavo di giocare ogni partita [ride]. Venivo dalla Stella dove giocavo 39 minuti a partita e poi son venuto qui e per due anni non ho toccato il campo. Quello è stato abbastanza difficile. Non mi aspettavo tutte le facilities che ho trovato qui, soprattutto la sala pesi. Avevo questa leggenda in testa che qui vanno pazzi per mettere su muscoli, eccetera… ma qui sono davvero esagerati. La palestra è gigantesca. Noi che siamo una scuola piccola abbiamo tre campi da basket e puoi andare ad allenarti quando vuoi. Cose che in Italia non vedi mai. Non mi aspettavo che fosse tutto così “facile”: se vuoi fare una cosa, la fai.

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